giovedì 29 novembre 2012

LA MARCIA DEI BAMBINI RIBELLI



Ha tredici anni. Il suo nome è Rina. Porta ai piedi dei tong mezzi distrutti. In testa, un grande cappello di paglia annodato con il tradizionale fazzoletto khmer. Sotto un cielo di piombo, in un tanfo pestilenziale, Rina smista i rifiuti nell'immensa discarica che si stende alla periferia di Phnom-Penh. In un fumo acre, una nube di mosche sorvola rumorosa i cumuli di immondizie.Intorno a quella ragazzina, uno sciame di bambini, i più piccoli di appena cinque anni, smistano anche i rifiuti di plastica, vetro, piombo, osso, scorticano tutto quanto è recuperabile per rivenderlo ai ferrivecchi che si sono sistemati nelle vicinanze.
lL guadagno di una giornata non supererà le mille lire, che faranno vivere Rina e la madre ammalata. Tradizionale in molti paesi del terzo mondo, ad esempio in India, e nelle Filippine, questa attività è relativamente nuova in Cambogia. L'ingrandimento smisurato della capitale spiega l'immensità della discarica in cui l'estrema povertà dei nuovi "cittadini" spinge centinaia di bambini. Il lavoro dei bambini nel mondo comincia appena a essere percepito come uno scandalo internazionale e come una aberrazione economica. Scandalo, perché ruba a milioni di loro la propria infanzia, aberrazione perché toglie loro ogni speranza di formazione e quindi ostacola pesantemente il decollo economico del paese. Questa presa di coscienza è emersa alcuni anni fa in America latina e soprattutto in Asia, quando organizzazioni non governative locali hanno pazientemente tessuto una rete di resistenza allo sfruttamento dei bambini. Da qui le più recenti operazioni di commando segnatamente in India condotte da un pugno di attivisti ben determinati che tentano di liberare i piccoli schiavi nelle officine, nelle fabbriche o nelle case chiuse.
Da questo movimento è sorta l'idea della Marcia dei bambini che, partita dall'Asia, dall'America latina e dall'Africa, si è conclusa a Ginevra, dove l'Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) ha deciso di adottare una convenzione sull'eliminazione delle forme più intollerabili di sfruttamento dei bambini. Quanti sono nel mondo oggi? Gli esperti del Bit e dell'Unicef parlano di 250 milioni di bambini sfruttati. Una cifra spaventosa che denuncia un forte aggravamento del fenomeno negli ultimi vent'anni, non spiegabile soltanto con l'accrescimento demografico: la deregolamentazione e potenti meccanismi di erosione dei sistemi giudiziari o culturali di tutela dell'infanzia sono all'opera in una tale evoluzione, e la spiegano. L'immensa maggioranza dei bambini sfruttati vive nel terzo mondo e metà di essi in Asia. L'India da sola ne conta più di cinquanta milioni. L'Africa ancora di più, in proporzione, poiché vi lavora un bambino su tre, contro uno su quattro in media in Asia, e uno su cinque in America latina. Tuttavia, da alcuni anni, questo fenomeno, profondamente radicato nella storia dei paesi industrializzati, vi sta risorgendo e si consolida, ma anche nei paesi preoccupati, teoricamente, della tutela dei più deboli, quali la Gran Bretagna, l'Italia o altri paesi dell'Europa occidentale. Il Regno unito sconta, anche in questo settore, il prezzo di anni di conservatorismo selvaggio e di deregolamentazione sistematica, che hanno provocato il crollo delle protezioni legali: certi bambini, in gran parte usciti dalle comunità di immigrati, lavorano in Gran Bretagna nei saloni dei parrucchieri, nei ristoranti, nelle lavanderie, nelle imprese di pulizia e così via . Quanti sono?
Alcune decine o centinaia di migliaia? Ogni stima al riguardo rimane azzardata nella misura in cui, in Gran Bretagna come ovunque in Europa, il lavoro infantile è clandestino e punito. Esiste in Portogallo, in Italia, in Grecia, in Spagna, negli Stati uniti... In Francia, dove diverse migliaia di bambini vivono fuori da ogni scolarizzazione , molti sono sfruttati, e ad essi si aggiungono quelli che, sotto la maschera dell'apprendistato, sono in realtà già inseriti nel mondo del lavoro e della produzione. Ma su queste realtà vige l'opacità più completa. Nel terzo mondo, dove lo sfruttamento è infinitamente più massiccio, i bambini non sono destinati soltanto ad alcuni tipi di attività marginali: sono parte integrante del sistema di produzione, si tratti di agricoltura, d'industria, di artigianato, o dei mille piccoli mestieri della strada come la confezione, le riparazioni... La lista è senza fine e la fantasia degli adulti senza limiti quando si tratta di ridurre intere popolazioni di bambini alla semi-schiavitù. Trasformati in fantini di cammelli nei paesi del Golfo, asserviti tutto l'anno in fabbriche di tappeti, di petardi, di fuochi d'artificio, di fiammiferi, di sigarette (in India), fanno anche i minatori (in Colombia, Bolivia, Perù), i levigatori di pietre preziose (in India), gli scavatori di diamanti (nell'ex Zaire).Puliscono le vasche delle petroliere (in Pakistan), confezionano le stoffe di cotone (In India, Pakistan, Bangladesh), di notte raccolgono il gelsomino (in Egitto), fabbricano i mattoni fin dall'età di cinque anni (in India, Pakistan), cuciono i palloni di calcio (in Pakistan), si tuffano in apnea per trovare ostriche con le perle (in Malesia, Birmania), inscatolano gamberetti e pesci surgelati (in Marocco, nelle Filippine)...Inoltre, nell'Asia del sud, diverse decine di milioni di persone vivono sotto il giogo della servitù per indebitamento, schiavi di usurai che hanno prestato denaro a un lontano ascendente.
L'usuraio, o i suoi discendenti, conserveranno così diritto di vita o di morte su intere famiglie incatenate a un inestinguibile debito. Evidentemente, alla radice del fenomeno sta la povertà; povertà degli stati sommata all'indigenza delle famiglie. Ma le spiegazioni economiche non bastano a rendere conto di un fenomeno di tale entità. Vi si aggiunge il fattore potente dell'inadeguamento della scuola, spesso troppo costosa, troppo distante, dove i maestri, mal retribuiti, demotivati, devono far fronte a classi di ottanta, cento bambini, dove la lingua usata risulta talvolta incomprensibile e il contenuto dell'insegnamento senza relazione con la vita delle famiglie.Perché, in queste condizioni, privarsi dei pur magri redditi che un bambino può fruttare? Perché mandare a scuola le bambine, esseri di serie B, così utili per la raccolta della legna, per portare l'acqua, per curare i più piccoli? Perché, in India, mandare a scuola i figli degli intoccabili, mentre il loro naturale destino è quello di servire? A questo complesso di cause intrecciate si aggiunge sempre, nei genitori, il sentimento di una grande costrizione. Quali mezzi abbiamo, si dicono, per non far lavorare i nostri bambini?Violenza dei rapporti sociali, violenza di un ordine economico sul quale essi non possono incidere e che molti ritengono immutabile. Allentare questa costrizione è l'obiettivo da raggiungere oggi.
Bisogna sentire cosa dicono questi bambini lavoratori. E' un discorso sconcertante, come rileva Michel Bonnet, autore di un notevole lavoro sull'argomento.
Una domanda, dice Bonnet, "ossessiona, giorno e notte, i bambini lavoratori: perché?Perché dobbiamo lavorare così duramente? Perché non possiamo andare un po' al lavoro e un po' a scuola? Perché i padroni sono così crudeli? Perché mi pagano così poco? Perché la vita è così ingiusta con i poveri?" Michel Bonnet fornisce egli stesso la risposta: "Ciò che il bambino teme più di tutto, molto di più delle percosse del suo padrone e delle pericolose condizioni di lavoro, è di essere messo fuori corso, di essere escluso dall'azienda come è escluso dalla scuola, dall'ospedale, dal terreno di gioco, in una parola, la paura di essere escluso dalla vita". Questi bambini chiedono non tanto di non andare al lavoro quanto di avere un lavoro più umano, più dolce, meglio remunerato, senza violenza. Come rimproverargli questo approccio "riformista" quando ogni altro atteggiamento sarebbe suicida?Non possiamo sottrarci a una riflessione di fondo. Il dibattito sulle strategie che consentiranno di eliminare il lavoro infantile è solo agli inizi. Questa riflessione deve anzitutto guardare all'insostenibile realtà delle condizioni di vita di questi piccoli schiavi e, come scrive Michel Bonnet, "lo sguardo è un atto rivoluzionario". Questo sguardo, questa analisi, ci mostrano che oltre il 90% del prodotto del lavoro dei bambini è destinato al mercato locale e non all'esportazione. Il boicottaggio dei prodotti fabbricati da bambini ed esportati verso i paesi del Nord, seppure essenziale alla presa di coscienza, è lungi dal risolvere l'insieme del problema. Le soluzioni saranno assieme più complesse e più globali. Esse passano, per i bambini, per la strada della scuola, anche sotto forma di classi sistemate sui luoghi stessi del lavoro dei bambini, come cominciamo a vedere in Pakistan, in India, in Marocco.
Peraltro, nulla sarà possibile senza un rovesciamento dell'atteggiamento dei politici, a livello nazionale e internazionale, per i quali il lavoro dei bambini rimane una sorta di passaggio difficile ma necessario verso una industrializzazione più presentabile, o un mutamento obbligato delle società preindustriali verso uno stadio compiuto di sviluppo. E' questo stereotipo comodo che va distrutto perché è chiaro che non si può fondare lo sviluppo di una società sull'asservimento di intere popolazioni di bambini. La strada percorsa in qualche anno è immensa. Ma il lavoro è solo all'inizio.

partigiano reggiano

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