Ha tredici anni. Il suo nome è Rina. Porta ai piedi dei tong mezzi distrutti. In testa, un grande cappello di paglia annodato con il tradizionale fazzoletto khmer. Sotto un cielo di piombo, in un tanfo pestilenziale, Rina smista i rifiuti nell'immensa discarica che si stende alla periferia di Phnom-Penh. In un fumo acre, una nube di mosche sorvola rumorosa i cumuli di immondizie.Intorno a quella ragazzina, uno sciame di bambini, i più piccoli di appena cinque anni, smistano anche i rifiuti di plastica, vetro, piombo, osso, scorticano tutto quanto è recuperabile per rivenderlo ai ferrivecchi che si sono sistemati nelle vicinanze.
lL guadagno di una giornata non supererà le mille
lire, che faranno vivere Rina e la madre ammalata. Tradizionale in molti paesi
del terzo mondo, ad esempio in India, e nelle Filippine, questa attività è
relativamente nuova in Cambogia. L'ingrandimento smisurato della capitale
spiega l'immensità della discarica in cui l'estrema povertà dei nuovi
"cittadini" spinge centinaia di bambini. Il lavoro dei bambini nel
mondo comincia appena a essere percepito come uno scandalo internazionale e
come una aberrazione economica. Scandalo, perché ruba a milioni di loro la
propria infanzia, aberrazione perché toglie loro ogni speranza di formazione e
quindi ostacola pesantemente il decollo economico del paese. Questa presa di
coscienza è emersa alcuni anni fa in America latina e soprattutto in Asia,
quando organizzazioni non governative locali hanno pazientemente tessuto una
rete di resistenza allo sfruttamento dei bambini. Da qui le più recenti
operazioni di commando segnatamente in India condotte da un pugno di attivisti
ben determinati che tentano di liberare i piccoli schiavi nelle officine, nelle
fabbriche o nelle case chiuse.
Da questo movimento è sorta l'idea della Marcia dei
bambini che, partita dall'Asia, dall'America latina e dall'Africa, si è
conclusa a Ginevra, dove l'Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) ha
deciso di adottare una convenzione sull'eliminazione delle forme più
intollerabili di sfruttamento dei bambini. Quanti sono nel mondo oggi? Gli
esperti del Bit e dell'Unicef parlano di 250 milioni di bambini sfruttati. Una
cifra spaventosa che denuncia un forte aggravamento del fenomeno negli ultimi
vent'anni, non spiegabile soltanto con l'accrescimento demografico: la
deregolamentazione e potenti meccanismi di erosione dei sistemi giudiziari o
culturali di tutela dell'infanzia sono all'opera in una tale evoluzione, e la
spiegano. L'immensa maggioranza dei bambini sfruttati vive nel terzo mondo e
metà di essi in Asia. L'India da sola ne conta più di cinquanta milioni.
L'Africa ancora di più, in proporzione, poiché vi lavora un bambino su tre,
contro uno su quattro in media in Asia, e uno su cinque in America latina.
Tuttavia, da alcuni anni, questo fenomeno, profondamente radicato nella storia
dei paesi industrializzati, vi sta risorgendo e si consolida, ma anche nei
paesi preoccupati, teoricamente, della tutela dei più deboli, quali la Gran
Bretagna, l'Italia o altri paesi dell'Europa occidentale. Il Regno unito
sconta, anche in questo settore, il prezzo di anni di conservatorismo selvaggio
e di deregolamentazione sistematica, che hanno provocato il crollo delle
protezioni legali: certi bambini, in gran parte usciti dalle comunità di
immigrati, lavorano in Gran Bretagna nei saloni dei parrucchieri, nei
ristoranti, nelle lavanderie, nelle imprese di pulizia e così via . Quanti
sono?
Alcune decine o centinaia di migliaia? Ogni stima al
riguardo rimane azzardata nella misura in cui, in Gran Bretagna come ovunque in
Europa, il lavoro infantile è clandestino e punito. Esiste in Portogallo, in
Italia, in Grecia, in Spagna, negli Stati uniti... In Francia, dove diverse
migliaia di bambini vivono fuori da ogni scolarizzazione , molti sono
sfruttati, e ad essi si aggiungono quelli che, sotto la maschera
dell'apprendistato, sono in realtà già inseriti nel mondo del lavoro e della
produzione. Ma su queste realtà vige l'opacità più completa. Nel terzo mondo,
dove lo sfruttamento è infinitamente più massiccio, i bambini non sono
destinati soltanto ad alcuni tipi di attività marginali: sono parte integrante
del sistema di produzione, si tratti di agricoltura, d'industria, di
artigianato, o dei mille piccoli mestieri della strada come la confezione, le
riparazioni... La lista è senza fine e la fantasia degli adulti senza limiti
quando si tratta di ridurre intere popolazioni di bambini alla semi-schiavitù.
Trasformati in fantini di cammelli nei paesi del Golfo, asserviti tutto l'anno
in fabbriche di tappeti, di petardi, di fuochi d'artificio, di fiammiferi, di
sigarette (in India), fanno anche i minatori (in Colombia, Bolivia, Perù), i
levigatori di pietre preziose (in India), gli scavatori di diamanti (nell'ex
Zaire).Puliscono le vasche delle petroliere (in Pakistan), confezionano le
stoffe di cotone (In India, Pakistan, Bangladesh), di notte raccolgono il
gelsomino (in Egitto), fabbricano i mattoni fin dall'età di cinque anni (in
India, Pakistan), cuciono i palloni di calcio (in Pakistan), si tuffano in
apnea per trovare ostriche con le perle (in Malesia, Birmania), inscatolano
gamberetti e pesci surgelati (in Marocco, nelle Filippine)...Inoltre, nell'Asia
del sud, diverse decine di milioni di persone vivono sotto il giogo della
servitù per indebitamento, schiavi di usurai che hanno prestato denaro a un
lontano ascendente.
L'usuraio, o i suoi discendenti, conserveranno così
diritto di vita o di morte su intere famiglie incatenate a un inestinguibile
debito. Evidentemente, alla radice del fenomeno sta la povertà; povertà degli
stati sommata all'indigenza delle famiglie. Ma le spiegazioni economiche non
bastano a rendere conto di un fenomeno di tale entità. Vi si aggiunge il
fattore potente dell'inadeguamento della scuola, spesso troppo costosa, troppo
distante, dove i maestri, mal retribuiti, demotivati, devono far fronte a
classi di ottanta, cento bambini, dove la lingua usata risulta talvolta
incomprensibile e il contenuto dell'insegnamento senza relazione con la vita
delle famiglie.Perché, in queste condizioni, privarsi dei pur magri redditi che
un bambino può fruttare? Perché mandare a scuola le bambine, esseri di serie B,
così utili per la raccolta della legna, per portare l'acqua, per curare i più piccoli?
Perché, in India, mandare a scuola i figli degli intoccabili, mentre il loro
naturale destino è quello di servire? A questo complesso di cause intrecciate
si aggiunge sempre, nei genitori, il sentimento di una grande costrizione.
Quali mezzi abbiamo, si dicono, per non far lavorare i nostri bambini?Violenza
dei rapporti sociali, violenza di un ordine economico sul quale essi non
possono incidere e che molti ritengono immutabile. Allentare questa costrizione
è l'obiettivo da raggiungere oggi.
Bisogna sentire cosa dicono questi bambini
lavoratori. E' un discorso sconcertante, come rileva Michel Bonnet, autore di
un notevole lavoro sull'argomento.
Una domanda, dice Bonnet, "ossessiona, giorno e
notte, i bambini lavoratori: perché?Perché dobbiamo lavorare così duramente?
Perché non possiamo andare un po' al lavoro e un po' a scuola? Perché i padroni
sono così crudeli? Perché mi pagano così poco? Perché la vita è così ingiusta
con i poveri?" Michel Bonnet fornisce egli stesso la risposta: "Ciò
che il bambino teme più di tutto, molto di più delle percosse del suo padrone e
delle pericolose condizioni di lavoro, è di essere messo fuori corso, di essere
escluso dall'azienda come è escluso dalla scuola, dall'ospedale, dal terreno di
gioco, in una parola, la paura di essere escluso dalla vita". Questi
bambini chiedono non tanto di non andare al lavoro quanto di avere un lavoro
più umano, più dolce, meglio remunerato, senza violenza. Come rimproverargli
questo approccio "riformista" quando ogni altro atteggiamento sarebbe
suicida?Non possiamo sottrarci a una riflessione di fondo. Il dibattito sulle
strategie che consentiranno di eliminare il lavoro infantile è solo agli inizi.
Questa riflessione deve anzitutto guardare all'insostenibile realtà delle
condizioni di vita di questi piccoli schiavi e, come scrive Michel Bonnet,
"lo sguardo è un atto rivoluzionario". Questo sguardo, questa
analisi, ci mostrano che oltre il 90% del prodotto del lavoro dei bambini è
destinato al mercato locale e non all'esportazione. Il boicottaggio dei
prodotti fabbricati da bambini ed esportati verso i paesi del Nord, seppure
essenziale alla presa di coscienza, è lungi dal risolvere l'insieme del
problema. Le soluzioni saranno assieme più complesse e più globali. Esse
passano, per i bambini, per la strada della scuola, anche sotto forma di classi
sistemate sui luoghi stessi del lavoro dei bambini, come cominciamo a vedere in
Pakistan, in India, in Marocco.
Peraltro, nulla sarà possibile senza un rovesciamento
dell'atteggiamento dei politici, a livello nazionale e internazionale, per i
quali il lavoro dei bambini rimane una sorta di passaggio difficile ma
necessario verso una industrializzazione più presentabile, o un mutamento
obbligato delle società preindustriali verso uno stadio compiuto di sviluppo.
E' questo stereotipo comodo che va distrutto perché è chiaro che non si può
fondare lo sviluppo di una società sull'asservimento di intere popolazioni di
bambini. La strada percorsa in qualche anno è immensa. Ma il lavoro è solo
all'inizio.
partigiano reggiano
Nessun commento:
Posta un commento
vOX pOPULI