martedì 18 dicembre 2012

[Im]pOSSIBLE LIVING...eSPLORATORE uRBANO eT sOLITARIO


Piscine nascoste tra i palazzi, ville dimenticate nella provincia, caserme militari vuote, ospedali e cinema chiusi: edifici abbandonati e ormai in rovina, spesso noti solo agli abitanti del luogo. Nel mio girovagare cerco di raccogliere le foto e le segnalazioni di queste costruzioni sparse per il paese, con l'obiettivo di sensibilizzarne al recupero le persone e le istituzioni, perchè il così arido gesto dell'abbandono, non trasmuti gli effetti collaterali in nuove genie di assoluta fragilità demografica,dalle irreparabili complicazioni ed effetti. 


Ragionare attorno al tema di quando l’abbandono dello spazio costruito, organizzato e vissuto dall’uomo abbia assunto un significato negativo di perdita irrimediabile di una delle dimensioni più intime e vitali dell’uomo, quella dell’insediarsi e abitare, pone alcune questioni di fondo per chi si occupa di territorio. Infatti temi fondamentali quali l’insediamento, il popolamento, il paesaggio costituiscono alcuni aspetti portanti del rapporto uomo e territorio che possono essere indagati dal punto di vista della mobilità, alla quale è strettamente legato anche l’abbandono.

E l’abbandono, in questa nuova dimensione, si fa strada. Un abbandono diverso a seconda del senso e del contenuto del luogo stesso: un’area industriale degradata e dismessa, un centro montano in alta quota, un villaggio dell’area siccitosa sub sahariana, un pascolo ed un terrazzamento, un villaggio di minatori. Sensi e significati diversi…
Non c’è più in questi abbandoni la dimensione positiva del processo innovativo; domina piuttosto quella negativa del senso di perdita, di degrado e talvolta di morte. I luoghi abbandonati diventano paesi fantasma, senza anima e vita, in un intreccio strano e affascinante di morte, ma anche (se la prospettiva, ad esempio degli spazi naturali, è quella della rinaturalizzazione), di un senso ambiguo e mitizzato di rinascita o di ripresa. Per l’uomo contemporaneo, efficiente, economicamente evoluto, immerso più o meno consapevolmente nel mondo della comunicazione e dell’immagine è faticoso fare sua l’idea di questi abbandoni, e così li respinge, li allontana. Anche il paesaggio, il luogo, l’abitare devono corrispondere a canoni ben precisi, tipici di una società ormai  globalizzata e legata ad un senso dei luoghi standardizzato e formulato sulle basi di un consumismo effimero e sulla mancanza di identità, memoria storica e spazialità condivise. 
Così nel nostro immaginario quotidiano si è fatta strada una geografia degli spazi dell’abbandono, del non ritorno, del degrado. Spazi e luoghi legati e connessi ad alcune aree geografiche talvolta ben definite, altre volte più sfumate e generiche dove le situazioni di abbandono convivono con situazioni di forte radicamento e presenza: in ambito urbano i quartieri abbandonati, le zone industriali dismesse, i centri storici vuoti e deserti; a scala più ampia i centri, i paesi, le valli, le regioni del greve abbandono e dello spopolamento.
 Al di la del vuoto però, in Italia vi è una situazione inedita, per ora puntiforme, quasi silenziosa e nascosta, che vede uomini, donne, bambini provenienti da India, Marocco, Albania, Bangladesh, Cina, Ghana e da tanti altri paesi occupare non solo gli spazi, ma anche le attività e i saperi dimenticati dalle popolazioni locali e ripopolare lentamente casolari, abitazioni, centri e località segnate dall’abbandono. Questi spazi si fanno quindi laboratorio di culture, scambi, contraddizioni, dai quali potranno nascere soluzioni nuove, che integrino processi di valorizzazione di ambienti, di saperi antichi e recenti, ma anche diversi, per dare una nuova fiducia a chi ha deciso che vivere nei luoghi posti ai margini, nel senso più dilatato del termine, non solo è possibile, ma può anche diventare scelta consapevole e attivare nuovi processi di organizzazione e costruzione dello spazio vissuto.

partigiano reggiano

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